Può parlarsi di distribuzione di utili non solo in presenza di maggiori ricavi in nero, ma anche laddove siano stati accertati costi non deducibili. Studiamo il caso.
La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 25501 del 12/11/2020, ha chiarito alcuni rilevanti profili in tema di presunzione di distribuzione di utili non contabilizzati. Nel caso di specie, il contribuente aveva proposto ricorso per cassazione nei confronti della sentenza della Commissione Tributaria Regionale, che aveva accolto l’appello dell’Agenzia delle Entrate. Il giudice di secondo grado aveva ritenuto che il contribuente, socio di una S.r.l. unipersonale, avesse l’onere di provare di non avere percepito i redditi accertati nei confronti della società.
Il ricorrente deduceva che, secondo la stessa Cassazione, poteva parlarsi di distribuzione di utili ai soci di Srl a ristretta base azionaria solo in presenza di maggiori ricavi in nero. Solo in tale ipotesi poteva dunque ritenersi che maggiori somme di danaro fossero entrate nelle casse della società, con conseguente presunzione di distribuzione di somme ai soci. Nel caso in esame, invece, erano stati accertati solo costi non deducibili, dai quali, secondo il contribuente, non era dato presumere che fossero entrate maggiori somme di danaro.
L’ufficio avrebbe dovuto dunque offrire ulteriori elementi per far ritenere effettiva un’ipotetica distribuzione di utili ai soci, incombendo su di lui l’onere della prova. L’Amministrazione finanziaria, pertanto, secondo il ricorrente, avrebbe dovuto fornire indici concreti, tali da far presumere che il socio avesse conseguito, pro quota, il maggior reddito accertato nei confronti della società. Dimostrando altresì che tale conclusione fosse l’unica conseguenza logica della premessa, costituita dall’accertamento in capo alla società di operazioni non deducibili. E che non fossero ipotizzabili conclusioni diverse, quali, per esempio, la creazione di riserve occulte da parte della società, ovvero l’appropriazione indebita di utili da parte di soci disonesti.
La decisione
Secondo la Suprema Corte la censura era infondata. Evidenziano i giudici di legittimità che, nel caso di società a ristretta base partecipativa, è da ritenere pienamente ammissibile la presunzione di distribuzione ai soci di utili non contabilizzati. E tale presunzione non viola la regola del divieto di presunzione di secondo grado. Il fatto noto non è costituito infatti dai maggiori redditi accertati nei confronti della società, ma dalla ristrettezza della base sociale e dal vincolo di solidarietà ravvisabile fra i soci.
E non spetta in tali casi all’ufficio, ma al socio contribuente, fornire la prova che i maggiori utili non siano stati distribuiti, ma siano stati dalla stessa accantonati, ovvero reinvestiti. Pertanto, può parlarsi di distribuzione di utili non solo in presenza di maggiori ricavi in nero, ma anche laddove siano stati accertati costi non deducibili. I costi fiscalmente non deducibili, rileva la Cassazione, comportano che la base imponibile sia stata comunque alterata, con conseguente ricaduta sulla quantificazione delle imposte dovute.
Conclusioni
Non essendo l’utile civilistico equiparabile al reddito imponibile, il fisco può quindi pretendere che venga fornita la prova della corrispondenza fra operazioni contabili e realtà economiche. L’ufficio può quindi non solo valutare in via presuntiva, ai fini reddituali, anche le passività dichiarate ma inesistenti, ma anche prescindere, in tutto od in parte, dalle risultanze del bilancio. Salva, naturalmente, la facoltà di prova contraria riconosciuta al contribuente. L’utile accertato, non riportato nelle scritture contabili ed in ordine al quale la società non fornisca giustificazioni, deve dunque presumersi diviso fra i soci in ragione della loro partecipazione azionaria.