Intervista-prontuario per l’investitore A cura di Gian Piero Turletti
COSA PENSA DELL’INVESTIMENTO IN TITOLI DI STATO?
Talora esiste una sorta di distorsione tra la percezione del rischio, connesso all’investimento in titoli del debito pubblico, e la reale situazione finanziaria.
A mio avviso diversi rischi sono sopravvalutati, in questa fase.
Un autentico fattore di rischio è connesso, a mio avviso, al livello dei prezzi, più che alla tenuta del debito pubblico.
Attualmente molti titoli quotano sopra il nominale, cioè sopra il prezzo di rimborso, e per questo si crea un possibile fattore di rischio.
Infatti, chi volesse attendere il rimborso del titolo, dopo l’investimento, non avrebbe la garanzia di vederselo rimborsato al prezzo di acquisto, né di poterlo rivendere allo stesso prezzo, in caso di discesa dei prezzi.
Chi volesse ancora acquistare sotto il nominale, farebbe quindi meglio ad attendere una fase di correzione, oppure individuare titoli anche oggi sotto il nominale, come il btp scadenza febbraio 2037.
MA E’ COMUNQUE CONSIGLIABILE UN INVESTIMENTO IN TITOLI DI STATO?
Se acquistati sotto il nominale, come durante certe fasi di crisi politica, che potrebbero far discendere i prezzi, il rischio non riguarderebbe più la dinamica dei prezzi, per chi intendesse portare l’investimento a scadenza, ma solo il fattore default, che ritengo decisamente remoto.
PER QUALI MOTIVI?
Condivido taluni ragionamenti economici, relativi alla tenuta del debito pubblico italiano ed alla sua sostenibilità nel medio/lungo termine, con particolare riferimento alle varie opzioni realmente a disposizione del governo.
A COSA SI RIFERISCE?
Intanto, va ricordata la composizione del debito pubblico italiano, che in gran parte è detenuto da investitori esteri, ed in particolare appartenenti ai paesi che rappresentano i nostri principali sbocchi commerciali, essenzialmente UE, USA e Gran Bretagna.
E’ sinceramente credibile pensare ad una ristrutturazione verso costoro?
Credo proprio di no, in quanto sarebbe come segare il ramo su cui si è seduti.
Infatti, in caso di ristrutturazione del debito, verrebbero penalizzati principalmente paesi che, commercialmente, potrebbero a loro volta gravemente penalizzarci e, considerando che in gran parte la nostra economia si basa sulle esportazioni, non sarebbe certo una politica molto furba quella di mettere a rischio tale essenziale elemento.
Inoltre, vanno fatti due semplici calcoli.
Cosa significherebbe, in pratica, una ristrutturazione del debito?
Ipotizziamo che, ad un certo punto, lo stato dichiari di rimborsare solo la metà del debito.
Su un debito che si aggira sui 2000 miliardi, per fare cifra tonda, rimarrebbero 1000 miliardi.
Ovviamente, a fronte del dichiarato default, schizzerebbero verso l’alto i tassi richiesti per rifinanziare la rimanente parte del debito, anche sino al 20/30 per cento.
Questo significa che sui restanti mille miliardi si pagherebbero interessi per circa 200/300 miliardi annui, il che comporterebbe che in pochi anni si rigenererebbe quel debito pubblico, che non si è voluto pagare.
Quindi, è ovvio che il default non consentirebbe di risolvere il problema.
E QUALI PROSPETTIVE EMERGONO DAL FISCAL COMPACT?
Quest’aspetto è l’altro lato della questione.
Praticamente, si tratta di ridurre il debito pubblico di circa 50 miliardi annualmente, una sorta di piano di rientro concordato in sede europea.
Con tutte le inefficienze riscontrabili nel comparto pubblico, non dovrebbe essere difficile individuare sprechi reiterati annualmente per tale importo, e quindi i medesimi potrebbero essere eliminati ripetitivamente in modo da ottemperare al fiscal compact.
Anche questo agevolerà la tenuta ed, anzi, la riduzione del debito, quindi è un elemento a favore della tenuta del debito pubblico, senza peraltro dimenticare che non sempre sono permessi tali piani di rientro, che vanno considerati occasioni da non perdere.
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