IPOTESI FED MODEL: LA VERSIONE ORIGINALE AVEVA RAGIONE, OPPURE SI DEVE CONSIDERARE ANCHE UN PREMIO PER IL RISCHIO? PERCHE’ STIAMO ENTRANDO IN UNA “FINESTRA DI PREZZO” RILEVANTE PER IL LUNGO TERMINE, ANCHE PRESCINDENDO DA ANALISI TECNICA E CICLI DI MERCATO.
In ottica di analisi fondamentale, molti si domandano, in particolare per Wall StreEt, se gli indici azionari siano sotto o sopravvalutati, cioè se quotino sotto o sopra il loro fair value di equilibrio.
Naturalmente, la risposta a questa domanda dipende dall’algoritmo, dalla formula usata per definire il fair value, o giusto prezzo di un indice azionario, tale da esprimere il suo effettivo valore intrinseco.
Come dicevo, il riferimento è soprattutto a Wall street, perché nella situazione attuale, un crollo dell’azionario USA avrebbe un impatto non indifferente sull’intero comparto azionario internazionale, determinando un’inversione di lungo termine.
Per quanto riguarda gli indici USA, particolarmente diffuso, anche perché nato in quel contesto, dalle considerazioni degli uffici studi della Fed, e da alcuni studiosi che ne hanno utilizzato certe presunte intuizioni di analisi fondamentale, un modello econometrico, definito appunto Fed model.
Nella sua versione originaria, questo algoritmo postula l’equivalenza del rendimento tra azioni ed obbligazioni, prendendo come riferimento i titoli di stato decennali.
Se, ad esempio, i titoli di stato decennali di un paese hanno un rendimento del 10 %, il p/e del relativo comparto azionario dovrebbe essere 10, perché l’inverso del p/e, cioè il rapporto tra utile medio per azione dell’indice, e quotazioni, rappresenta un rendimento del 10 %.
Tale modello econometrico è stato però criticato, perché non considererebbe un premio per il maggior rischio legato al comparto azionario, rispetto al comparto obbligazionario.
Da tali critiche è discesa una versione modificata del fed model, che richiede una maggiorazione del tasso di implementazione della formula, che si ottiene aggiungendo un 5 per cento al tasso di rendimento dei titoli di stato decennali.
Considerando singoli mercati azionari, certo il premio per il rischio non è sempre uguale né sul singolo mercato, né nello stesso periodo su mercati diversi, ma diciamo che un 5 per cento è un valore medio cui solitamente tendono molti mercati, per cui è un valore di riferimento più che accettabile.
Pertanto, nell’esempio di sopra, il p/e di equilibrio si ottiene dividendo il numero 1 non per 0,1, ma per 0,15, cioè per 10 per cento, cui aggiungo 5 per cento, cioè divido per 15 per cento, che espresso in forma decimale diviene 0,15.
Ovviamente il risultato comporta una diminuzione del p/e di equilibrio, in quanto invece di 10, ottengo 6,6.
Definiti, quindi, gli orientamenti di queste due scuole di pensiero, i fautori della versione originale del fed model fanno notare che proprio i significativi rialzi di Wall street si spiegherebbero con la versione originale, perché stando agli attuali tassi di interesse dei titoli di stato decennali, ancora non sarebbe raggiunto il fair value.
Infatti il rendimento attuale è del 2,36 per cento, mentre il p/e dello S & P 500 è 25,72, e quindi il rendimento equivale a 1/25,72, cioè 3,88, per cui ancora si dovrebbe parlare di quotazione sotto il fair value, che sarebbe un p/e di 42,37, il che giustificherebbe i rialzi in corso.
Invece con la formula integrata con il premio del 5%, le quotazioni sono sicuramente a premio, in riferimento ad un fair value di equilibrio pari ad un p/e di 13,58.
Chi ha ragione?
Come sempre, un’ipotesi di modello econometrico che spieghi la situazione di un mercato, non può prescindere dal confrontare le valutazioni del modello con la dinamica assunta da quel mercato.
In tal senso, sono stati condotti degli studi che dimostrano una non necessaria, cioè non permanente correlazione tra rendimento obbligazionario e rendimento azionario, senza componente premio per maggior rischio, come espresso dall’inverso del p/e.
Ma, sotto un profilo più strettamente analitico, occorre dire che la critica principale alla versione tradizionale del fed model, riconduce al fatto di una sua sostanziale inapplicabilità in determinate condizioni.
Il riferimento è ai casi di rendimenti obbligazionari nulli o negativi, obiezione quindi ancora più forte, perché basata su considerazioni di tipo analitico, e non semplicemente storico-statistico.
In questi casi la teoria insita nell’algoritmo dovrebbe condurre all’ipotesi di un fair value praticamente infinito.
Il che urta con l’evidente considerazione che qualsiasi titolo può comportare una perdita o un guadagno per l’azionista, riconducibile alla gestione economica della relativa società, che può creare o meno valore.
Da tali considerazioni consegue che il fed model non va interpretato come l’originaria tesi voleva, cioè basandosi sull’assioma di una sostanziale identità di azioni ed obbligazioni, peraltro asset strutturalmente diversi, ma si deve comunque basare sull’ipotesi di un tasso almeno minimo, insito nel maggior premio per il rischio, che possiamo mediamente stimare nel 5 per cento.
Infatti in tal caso possiamo comunque applicare il modello anche nel caso di ipotesi di tassi zero o negativi, perché comunque in tale ipotesi si dovrebbe comunque applicare un tasso minimo del 5 per cento.
Applicando questi concetti ai dati attuali relativi allo S & P 500 si ottiene, quindi, che a fronte di un rendimento del 2,36 per cento dei titoli di stato decennali USA, il p/e di equilibrio si attesta su 13,58 che, riferito ad una stima di utile medio per azione di 101, equivale a 1372, valore cui tenderebbe probabilmente l’indice in caso di inversione di tendenza, con una perdita di circa il 50 per cento dalle attuali quotazioni.
Un particolare approfondimento merita anche il confronto con i precedenti grandi crolli di mercato, verificatisi a partire dagli anni ’90, per avere una conferma statistica di tale ragionamento.
I ribassi di lungo termine sono sostanzialmente due, il primo originatosi nel 2000, il secondo a partire dal massimo del 2008.
Nel primo caso seguì un ribasso di circa il 50 per cento, nel secondo il ribasso fu del 57,6 % dal precedente massimo.
Questo implica, statisticamente, che dal ribasso possibile, conseguente alla formazione di un massimo di lungo termine, si possa comprendere dove potrebbe formarsi quest’ultimo, con un ragionamento ex adverso.
Se, infatti, possiamo ipotizzare l’entità di maggior ribasso, come pari ad esempio al 57,6 %, questo significa che il massimo precedente è pari al 173,6% del minimo di lungo termine.
Se, quindi, il fair value di equilibrio, basato sui pregressi ragionamenti, come valore cui dovrebbe tendere l’indice è pari a 1372, ne consegue che il massimo precedente tale crollo dovrebbe essere 2381, mentre le attuali quotazioni sono già al di sopra di tale livello.
Anche sulla base di tale considerazione storico-statistica, dobbiamo a mio avviso considerare la situazione come entrata, a livello di quotazioni, in una potenziale finestra di massimo, anche a prescindere da valutazioni di analisi tecnica o ciclica, perché, ipotizzando un calo sino al valore di equilibrio a 1372, sarebbe una discesa del 53 per cento rispetto al massimo attuale, pari, guarda caso, alla media delle percentuali dei due precedenti ribassi dal precedente massimo, 50% e 57,6%, la cui media si attesta appunto a 53,8%, proprio un valore che potrebbe rientrare nella percentuale statistica del ribasso, che dovrebbe seguire la formazione di un massimo di lungo termine.
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Cimatti Mario Marco