L’Europa correrebbe il rischio di affrontare quell’eventuale crisi senza aver ancora effettuato la stretta monetaria dovuta

BCE

La Federal Reserve è pronta ad attuare la sua tanto attesa stretta monetaria. Questa dovrebbe avvenire già nel prossimo mese di marzo, stando alle dichiarazioni sempre più insistenti di alcuni dei suoi membri. La stretta consisterà in un azzeramento degli acquisti dei bonds, inseriti nel programma di Quantitative Easing, avviato dalla Banca centrale nel 2020 per far fronte alla crisi pandemica, e nel rialzo dei tassi di interesse, prevedibilmente per un ammontare pari a 25 basis points. Se davvero la FED dovesse alzare il costo del denaro nel FOMC di marzo, il numero complessivo di aumenti dei tassi potrebbe essere pari a 4, anziché ai 3 finora attesi dagli investitori. A prescindere dal numero, è certo il fatto che la politica monetaria ultra espansiva praticata dalla Banca centrale degli Stati Uniti negli ultimi anni stia volgendo ormai al termine.

Non sarà questo un passaggio indolore. Infatti, il contesto monetario nel quale l’economia USA ha operato negli ultimi anni, caratterizzato da tassi ai minimi storici e da una dimensione del bilancio della Banca centrale senza precedenti, è stato troppo anomalo perché la sua esaustione non produca effetti avversi sui mercati finanziari e, di riflesso, sull’economia reale. L’aumento dei rendimenti dei T-bonds osservato negli ultimi giorni, da questo punto di vista, rappresenta una spia evidente del fatto che il mercato dei sovereign bonds soffrirà non poco la cessazione del programma di acquisti, mentre la volatilità recentemente osservata sui mercati azionari statunitensi lascia presagire forti correzioni al ribasso degli indici di Borsa conseguenti all’aumento dei tassi, con molti analisti che si spingono addirittura a sostenere come l’aumento sarà l’evento che farà scoppiare la presunta bolla speculativa che si sarebbe formata negli ultimi anni su questa asset class.

Senza contare che l’effetto conseguente alla correzione dei mercati potrebbe essere quello dell’avvio di una fase recessiva per l’economia USA.

Se ciò avvenisse davvero, sarebbero guai seri per l’economia globale, compresa quella europea. Perché proprio l’Europa correrebbe il rischio di affrontare quell’eventuale crisi senza aver ancora effettuato la stretta monetaria dovuta, così compiendo l’errore esattamente opposto a quello che fece, con Jean-Claude Trichet, durante la crisi finanziaria del 2008, quando la BCE alzò i tassi in anticipo rispetto a quando fosse opportuno farlo, portando l’eurozona in recessione. In quella occasione, il costo del denaro fu portato al 4,25%, un livello più alto del tasso d’inflazione, pari al 4,00%.

L’Europa correrebbe il rischio di affrontare quell’eventuale crisi senza aver ancora effettuato la stretta monetaria dovuta

Ecco, effettuare il rialzo dei tassi troppo in ritardo non è un errore certamente meno grave rispetto a quello di alzarli troppo in anticipo. Se è vero, infatti, che il tasso d’inflazione dell’area euro non è ai livelli degli Stati Uniti, è altrettanto vero che questo ha raggiunto un livello incompatibile con gli attuali tassi negativi. Almeno se il rispetto delle regole monetarie, come la Taylor’s rule, ha ancora un senso. Le regole, invece, un senso lo hanno ed è quello di evitare che i criteri sulla fissazione dei tassi d’interesse scadano nella mera discrezionalità del policy maker. Sarebbe questa un serio rischio per l’indipendenza e la reputazione della banca centrale. Un rischio che l’Europa farebbe bene a non correre.