Il Governo al voto di fiducia: verso nuovi paradigmi economi e politici?

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Nei prossimi giorni il governo già in carica otterrà un ormai scontato voto di fiducia, basato anche sulle decisioni a favore di gruppi parlamentari minori.

Ma quali prospettive si aprono ora per l’Italia, anche alla luce delle indicazioni nel frattempo giunte da alcuni ministri?

Lo domandiamo a Gian Piero Turletti, in questa intervista.

Gian Piero Turletti, è autore di Magic Box in 7 passi e di  PLT

Cosa prevede alla luce delle prime indicazioni del nuovo ministro dell’economia?

Il prof. Tria si è tradizionalmente dichiarato favorevole a coprire certi impegni di spesa tramite incremento dell’Iva.

Già in precedenti interventi avevo sottolineato come il concetto di moltiplicatore keynesiano fosse solo teorico, nei suoi presunti effetti espansivi, perché la percentuale di propensione al consumo dipende da molti fattori e non può essere determinata a priori.

Questo significa che, a fronte di un determinato impegno di spesa, non si può escludere che la base imponibile del paese non cresca comunque, e che quindi si debba poi provvedere con ulteriore imposizione fiscale a coprire le mancate entrate o a produrre nuovo deficit.

Ma se si introduce nuova imposizione fiscale, non si rischia addirittura di ottenere un effetto opposto, rispetto all’ipotesi di nuovo sviluppo economico?

Effettivamente è così, anche proprio in base alla formula del moltiplicatore monetario, che nella sua versione più semplice è: 1/1-c.

Dove c è la propensione al consumo.

Questo significa che se c vale zero, cioè il mercato tende a non consumare, a fronte di un determinato livello di spesa pubblica, o di defiscalizzazione, il livello dei consumi, e quindi anche la base imponibile, rimarrà sugli stessi livelli.

Per produrre sviluppo economico, occorre che vi sia un certo livello di propensione al consumo.

Ad esempio il 30 per cento.

In tal caso, avremo: 1/0,7=1,42, che significa che per ogni euro di ulteriore spesa pubblica, o oggetto di riduzione fiscale, l’economia dovrebbe svilupparsi del 142 per cento, quindi di 1 euro, 42.

Tuttavia, l’equazione si complica, se introduciamo anche la componente relativa alla pressione fiscale, che possiamo indicare con f.

Infatti la formula diviene: 1/1-c+f.

Ipotizziamo sempre, quindi, che la propensione al consumo sia un 30 per cento.

Ma immaginiamo che la pressione fiscale sia il 40 per cento.

Avremo: 1/1,1, quindi 0,9.

Questo significa che per ogni euro destinato a spesa pubblica o riduzione fiscale, comunque la base economica ne produce 0,9, proprio perché risente dell’effetto negativo della pressione fiscale, necessaria per coprire gli impegni di spesa o inerenti alla diminuzione delle aliquote.

Ma questo significa che allora hanno ragione coloro che intendono finanziare tutto in deficit?

Ovviamente no, proprio perché un deterioramento dei parametri di bilancio determina poi la necessità di recuperi della sostenibilità del debito, con conseguenti ulteriori manovre restrittive, che possiamo ricondurre alla variabile f della formula del moltiplicatore.

Nel dibattito di questi ultimi tempi tra pro e contro rigore, quindi, chi ha ragione?

A mio avviso, tanto per essere chiari sino in fondo, un conto era valutare con maggior attenzione meccanismi e dinamiche future della costituzione dell’eurozona prima di entrarvi, ben altro conto è invece definire cosa comporterebbe l’uscita dall’euro.

I costi sarebbero sicuramente superiori ai benefici.

Una volta entrati in un certo tipo di meccanismo diviene difficile uscirne senza pesanti conseguenze.

Ma allora, quale potrebbe essere il meccanismo necessario per risolvere i problemi di finanza pubblica?

Molto tempo fa, ancora prima di Maastricht, ebbi ad osservare che alla fine, l’unica vera garanzia di effettiva solvibilità del debito pubblico era la politica monetaria.

Per come comunque impostata nei moderni ordinamenti statuali, tale politica è però necessariamente legata o a sistemi di conversione aurifera, cioè legata alla convertibilità della moneta in oro, o all’emissione di titoli di stato, tramite acquisizione dei medesimi da parte di una banca centrale.

In altri termini, uno stato altro non potrebbe fare che indebitarsi.

Ed anche la scuola della flessibilità sui parametri di bilancio, altro non fa che confermare tale meccanismo.

Si tratta di una sorta di diktat antinflattivo, legato soprattutto ai timori tedeschi di evitare un ritorno alle condizioni economiche che caratterizzarono la repubblica di Weimar, anticipatrice della dittatura nazista.

Occorre invece uscire sia dalla logica rigorista, sia dalla logica della flessibilità, perché altro non sono che due facce della stessa medaglia.

La soluzione deve passare per un meccanismo che consenta di stampare direttamente moneta senza correlata emissione di titoli di stato, ma non in modo indiscriminato.

Solo in relazione a quantitativi annui molto contenuti, per consentire un rientro dal debito in tempi lunghi.

L’impatto inflattivo potrebbe essere nullo o quasi, soprattutto nel caso in cui a fronte di un determinato quantitativo di nuova moneta, si realizzasse un maggior quantitativo di beni/servizi, visto che è il loro controvalore il nuovo paradigma del valore della moneta, in alternativa al quantitativo di riserve aurifere tipico dei sistemi gold standard.

Se ad esempio il debito pubblico italiano si aggira sui 2400 miliardi, una base monetaria aggiuntiva di circa 35 miliardi annui potrebbe consentire di rientrare totalmente dal debito in una settantina d’anni.

Se quindi la banca centrale di un singolo stato fosse autorizzata a coprire in tal modo il debito pregresso, stampando moneta da considerare direttamente di proprietà statale, senza correlata emissione di titoli di stato, si potrebbe dar vita ad un piano di ammortamento del debito, integrativo della finanza pubblica, tale da comportare:

  • garanzia di restituzione
  • sostenibilità del debito pubblico
  • garanzia anche per gli investitori esteri
  • ridotto rischio inflattivo e comunque assorbito da una probabile espansione del sistema economico.

Perché attualmente non sono previste soluzioni di questo tipo?

I motivi sono molteplici.

Per un verso è chiaro che tutta la costruzione dell’eurozona si è basata sul timore del ritorno ad un’inflazione incontrollata, e da qui ogni contrarietà a meccanismi favorevoli ad un incremento della base monetaria.

Per altro verso, una volta definiti alcuni meccanismi nei trattati europei, resta più difficile introdurre dinamiche alternative.

E, soprattutto, esiste il timore di effetti inaspettati ed indesiderati.

Del resto, è anche vero che l’economia è più una scienza dagli effetti probabilistici, che non una scienza esatta.

E proprio in tale ottica, non esiste quindi il rischio effettivo di un ritorno a dinamiche iperinflattive?

Proprio le politiche monetarie espansive, realizzate sulle due sponde dell’Atlantico da parte di Fed e BCE tenderebbero a dire il contrario.

Non pare siano in atto particolari spinte inflattive, ed i tassi previsti, pur in aumento, sono comunque molto distanti da certe dinamiche inflattive, come quelle che si produssero nella Germania di Weimar.

E questo avvalora proprio quanto sopra dicevo a proposito del nuovo controvalore della moneta.

Venuta meno la convertibilità aurea, il controvalore della massa monetaria è rappresentato dal controvalore dei beni e servizi di un paese, o comunque dell’area territoriale corrispondente a quella in cui ha valore legale quella determinata moneta.

Se la base monetaria si incrementa, quindi, ad esempio del 50 per cento, ma parimenti si incrementa della stessa misura il controvalore dei beni e servizi, il valore della moneta tenderà a mantenere il proprio valore senza particolari spinte inflattive.

Una domanda complessiva: cosa pensa del primo operato del governo Conte?

Anche a prescindere da visioni politiche di qualsiasi tipo, proprio tecnicamente non mi convincono alcuni comportamenti.

Vede, la questione è questa.

Tutta la campagna elettorale, e poi la successiva fase che ha portato all’ormai famoso contratto lega-5 stelle, si sono incentrati su alcuni temi di fondo.

Occorre però dire che tradurre un programma politico in provvedimenti concreti, richiede tecnicismi, che non sempre i politici possiedono autonomamente.

Infatti sono solitamente gli staff tecnici a compiere tali delicate operazioni.

Staff che possono essere di due tipi.

O staff istituzionali, riconducibili agli organi tecnici delle camere o di singoli ministeri, o della presidenza del consiglio dei ministri, oppure staff costituiti dai tecnici dei partiti.

Visto, quindi, che si è fatto un gran parlare di certi temi, sarebbe stato utile per chi voglia tradurli in concreti provvedimenti, non un atteggiamento del tipo: una volta nominati i ministri, questi provvedono a riunirsi con tali staff e poi si vede cosa succede.

Come se io fossi nominato ministro, ed avessi in testa un’idea.

Quindi convoco, ad esempio, il capo dell’ufficio legislativo del mio ministero e lo incarico di far redigere un testo di legge che realizzi le mie idee.

E poi, se gli altri ministri, dopo aver vagliato il dossier, lo approvano, anche questi dopo aver sentito le opinioni dei rispettivi tecnici, allora c’è l’ok del consiglio dei ministri.

Come dicevo, invece di procedere come dianzi descritto, sarebbe stato preferibile che già gli staff tecnici dei partiti avessero elaborato provvedimenti concreti, testi normativi e quant’altro, da sottoporre poi anche agli staff ministeriali.

Se così fosse stato, già vi sarebbero stati provvedimenti operativi, pronti ad essere tradotti in concreti provvedimenti.

Invece, a prescindere dal merito dei singoli punti programmatici, tutto questo non è stato fatto.

O per mancanza delle competenze tecniche necessarie, o perché proprio tecnicamente, chi si è dedicato a certi temi, ha incontrato difficoltà insormontabili, che in questo caso credo siano state soprattutto di natura finanziaria.

Siamo infatti solo a livello di idee e di spunti da sviluppare.

Secondo Lei, perché non si è proceduto diversamente?

Eppure, la composizione del consiglio dei ministri si caratterizza per la presenza anche di tecnici di settore. Ad esempio il ministro della salute, Grillo, è un medico legale. Il ministro della giustizia è un avvocato.

Lo stesso Conte, presidente del consiglio, è ovviamente un esperto legale, quale avvocato. Per non parlare dei ministri con competenze economiche.

Non le pare?

Intanto, non basta avere alcune competenze tecniche, per elaborare provvedimenti articolati e complessi di un certo tipo in qualsiasi materia.

La stessa facoltà di giurisprudenza non garantisce di saper redigere disegni di legge in determinate materie, neppure la pratica forense.

La competenza tecnica di un certo tipo si può acquisire quasi esclusivamente in base a precisi percorsi di studio e di lavoro nell’ambito di determinati organismi, quali sono appunto gli uffici legislativi delle camere, piuttosto che della presidenza del consiglio dei ministri, o di singoli ministeri.

Si supera il concorso per accedervi, e poi si deve essere disposti a molto studio e pratica.

Oppure, alternativamente, certo è possibile una competenza nel caso si siano approfonditi studi in determinate materie.

Non a caso, ad esempio, possono anche essere istituite commissioni di esperti esterni per determinati ambiti, ad esempio nel caso di riforme del codice penale o di procedura penale, solitamente i relativi testi provengono da commissioni di professionisti e professori in materia.

E’ quindi la limitata elaborazione tecnica, a mio avviso, il principale neo che dovranno affrontare ministri, a loro volta non necessariamente tecnicamente preparati.

Il rischio è che si accontentino del lavoro di staff tecnici e poi, in sostanza, della relativa opinione.

A chi non crede che molte volte le cose non siano così, rivolgo un invito: provate ad interrogare uno dei parlamentari che ha votato l’ultima legge finanziaria.

Scommetto che se andiamo a domandare di specifiche norme, non le conoscono.

Il fatto è che le centinaia di articoli di cui si compone una legge finanziaria sono scritte da tecnici, che cercano di tradurre in norme le indicazioni politiche.

Certo, poi una relazione accompagna queste norme, ma spesso i politici si accontentano di una valutazione complessiva, anche perché non è il loro lavoro.

E spesso il tutto si basa sulla presunzione che i provvedimenti elaborati dai tecnici corrispondano alle direttive politiche, ma è sempre così?

Pertanto la speranza è quanto meno di avere politici che sappiano capire dove va a parare il lavoro degli staff tecnici.

Anche per questo, soprattutto in certe materia, è preferibile che già vi siano sufficienti approfondimenti tecnici.

Se così fosse stato, credo che i vari Di Maio e Salvini, invece di dichiarare che ora approfondiranno i vari dossier, avrebbero invece detto che già avevano provvedimenti pronti, anche solo per essere ulteriormente approfonditi ed eventualmente modificati, ma così non è stato.

Nessuno ha detto: i nostri tecnici hanno già pronta una bozza di disegno di legge sul reddito di cittadinanza o sulla cosiddetta flat tax, comprensiva anche di coperture, pronta ad essere approfondita e discussa.

La bozza di quel contratto già lo dimostra in termini di copertura dei provvedimenti.

Infine, come valuta la nuova reazione dei mercati, questa volta positiva?

Un primo aspetto della questione riconduce all’aspro contezioso istituzionale, poi a quanto pare rientrato.

Altro motivo di rassicurazione, almeno momentanea, la nomina di altro ministro economico al posto di Savona.

A quanto pare ai mercati è bastato definire una compagine ministeriale che non destasse le stesse perplessità di Savona sulla permanenza italiana nell’eurozona.

Questo non significa che non ci potranno essere ulteriori incidenti di percorso, in primis proprio per il problema della copertura finanziaria di certi provvedimenti.

Il discorso programmatico di Conte potrebbe già essere indicativo e definire taluni aspetti, ma potrebbe anche, come si usa dire in gergo politico, volare alto.

Limitarsi, cioè, ad indicare provvedimenti e temi, senza entrare nel merito del loro contenuto, e questo potrebbe ulteriormente innervosire i mercati, soprattutto se si farà riferimento a non meglio precisate fonti di copertura, o peggio ancora, al ricorso al deficit di bilancio.

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