Esercizio abusivo della professione per chi fa psicoterapia senza titolo abilitante

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La Cassazione, con sentenza n. 13556/2020 ha respinto il ricorso di un’imputata, condannata in primo e secondo grado per esercizio abusivo della professione di psicoterapeuta. Quest’ultima, senza aver conseguito il diploma di laurea, la specializzazione e l’iscrizione all’albo, ha sottoposto ad analisi freudiana una bambina. Sulla scorta di detta terapia, ha poi formulato un’analisi negativa di sindrome di alienazione parentale. Con essa ha spiegato che il rifiuto della bambina di vedere il padre fosse da ricondurre alle particolari attenzioni che lo stesso le rivolgeva.

Nel caso di specie, la Cassazione ha respinto i motivi di impugnazione fatti valere dall’imputata. L’unico motivo accolto è stato quello fondato sulla violazione del principio di irretroattività della legge penale. Ciò in quanto le pene applicate alla stessa sono state quelle previste da una legge entrata in vigore dopo i fatti contestati.  Quest’ultima, che ha inasprito le conseguenze sanzionatorie del reato ex art. 348 c.p., non è applicabile all’imputata perché entrata in vigore dopo il fatto commesso.

Esercizio abusivo della professione: i motivi della decisione

Ai fini della configurazione del reato, la Cassazione ha ritenuto non rilevi che l’imputata non si sia presentata come psicoterapeuta, ma come psicoanalista. Di fatto ella praticava infatti tale attività, gestendo un ciclo di sedute e ciò presuppone una specifica formazione. Né rileverebbe che la donna abbia concluso per l’insussistenza della sindrome parentale, con una diagnosi in negativo. Infatti, neppure l’esclusione della sindrome le competeva. Quanto dalla stessa praticato, infatti, richiede il completamento di un certo corso di studi e un’abilitazione.

Sulla scorta di un’analisi che non le competeva, inoltre, la donna avrebbe esercitato la sua influenza, sconsigliando al padre di presenziare alla Comunione della figlia. Con ciò finendo per condizionare le dinamiche familiari, esprimendo giudizi, senza averne titolo. Non può essere condivisa inoltre la tesi secondo cui l’analisi non costituirebbe una terapia. Questo perché la psicoanalisi messa in atto dall’imputata è riconducibile a un percorso psicoterapeutico che ha come obiettivo la guarigione di alcune patologie.

La metodica a cui ha fatto ricorso, infatti, non c’è dubbio che debba essere inquadrata nella professione medica di psicologo. Ne deriverebbe la configurabilità del contestato reato ex art. 348 c.p., in carenza delle condizioni legittimanti tale professione. Non a caso, Il percorso di studi necessario per l’esercizio della professione non è derogabile e sostituibile da corsi e master conseguiti a vario titolo. Essi, infatti, non sono considerati equipollenti o sostituibili con la laurea in medicina, che rappresenta il “modello legale” di formazione richiesto per esercitare determinate attività. Ciò, fermo restando le ulteriori differenze tra attività richiedenti la laurea in medicina e quelle consentite allo psicologo iscritto all’apposito albo.

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