Tutte le attività umane portano con sé un’intrinseca percentuale di pericolo. Tra queste sicuramente l’attività lavorativa. L’articolo 2087 codice civile pone a carico del datore di lavoro una serie di obblighi per proteggere i suoi lavoratori. L’imprenditore è, infatti, tenuto, nell’esercizio dell’impresa, ad adottare misure che, secondo le particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica proteggano i lavoratori. In particolare, la loro integrità fisica e personalità morale.
La condotta del datore di lavoro che non assicuri le condizioni di sicurezza necessarie al lavoro dei suoi addetti può anche costituire reato. In particolare è possibile che incorra nel reato dell’articolo 590 codice penale, lesioni personali colpose.
Ecco quando il dipendente danneggiato sul lavoro può chiedere i danni e il risarcimento al suo capo
Alle volte sono la poco prudenza, la disattenzione, l’imperizia o la negligenza dei lavoratori stessi che causano gli infortuni. Il datore di lavoro è, però, sempre responsabile nel vigilare sull’operato dei propri addetti. Non solo deve anche verificare che siano attive tutte le misure di sicurezza necessarie, secondo l’esperienza la tecnica e la specificità del lavoro a salvaguardare i lavoratori. Solo se un suo dipendente tenga un comportamento del tutto sconsiderato, fuori dalle logiche del lavoro, è esclusa la responsabilità del datore di lavoro.
Interessante in questo senso la sentenza n. 45603 del 2021 della Corte di Cassazione. Il caso riguardava un’azienda di costruzioni, il cui titolare veniva condannato in base all’articolo 590 codice penale. Questo perché non aveva adottato le misure necessarie a garantire la sicurezza dei suoi addetti sul posto di lavoro. Ed allora ecco quando il dipendente danneggiato sul lavoro, secondo la giurisprudenza, può ottenere il risarcimento dei danni.
Il caso esaminato dalla Suprema Corte
In particolare, nella lavorazione di un manufatto di ferro di 480 kilogrammi un dipendente lo appoggiava, tramite gli appositi strumenti da lavoro, sul banco per la lavorazione. Il tavolo da lavoro non era ben fissato e l’oggetto di ferro cadeva sul piede del lavoratore. I dottori diagnosticavano al lavoratore coinvolto il 12% di invalidità permanente insieme con l’impossibilità di tornare a lavoro per 376 giorni.
I giudici osservavano che la lavorazione di quel tipo di oggetti era del tutto straordinaria rispetto alle attività dell’impresa. E come evidenziato dall’ASL sarebbe stato necessario adottare cautele maggiori e diverse da quelle ordinarie. La Cassazione spiega, cioè, che se anche gli strumenti ordinari del lavoro sono comprovatamente sufficienti e funzionanti per il loro utilizzo normale, ciò non li rende adatti ad eseguire lavori straordinari. Se, infatti, l’azienda si trova di fronte a commesse straordinarie l’attenzione e l’obbligo di vigilanza del datore di lavoro aumenta proporzionatamente. Dunque, nello svolgimento di attività straordinarie e non ricorrenti è necessario per il datore di lavoro adottare delle maggiori cautele rispetto a quelle classiche. Altrimenti potrebbe incorrere, come in questo caso, in responsabilità penale e civile.