Da transitoria a permanente anzi persistente. Dall’inizio del nuovo anno l’aggettivazione che si affianca al termine “inflazione” è cambiata radicalmente nel linguaggio delle principali Banche centrali. Le quali, dopo aver ritenuto e raccontato, per tutto il 2021, che la recrudescenza inflazionistica fosse soltanto un fenomeno circoscritto e di breve periodo, principalmente legato alla fase di ripresa post-Covid, hanno dovuto arrendersi all’evidenza dei numeri e cambiare completamente interpretazione del fenomeno, per evitare il rischio di perdere reputazione e credibilità davanti ai mercati finanziari.
Da transitoria a permanente: l’inflazione secondo le principali Banche centrali
E tale evidenza non lascia adito ad alcun dubbio sul fatto che l’inflazione non si possa più considerare ormai come un fenomeno temporaneo. Negli Stati Uniti, il CPI è infatti cresciuto del +7,5% su base annuale lo scorso gennaio, ai massimi livelli degli ultimi 40 anni. L’ennesimo dato superiore alle attese degli analisti. Così, la Federal Reserve si ritrova ora in ritardo nella restrizione monetaria che si dovrebbe attuare in situazione di inflazione secondo i manuali di economia.
E la rincorsa potrebbe consistere in un approccio più da “doccia fredda” che da gradualismo, con molti analisti che ora cominciano a scommettere su un rialzo dei tassi d’interesse pari a ben 50 punti base nel FOMC del prossimo marzo, contro i 25 punti basi attesi fino a poche settimane fa. A conti fatti, sempre secondo le attese degli analisti, per la fine dell’anno il numero di rialzi potrebbe addirittura essere pari a 6. In questo caso, il costo del denaro arriverebbe così a posizionarsi nell’intervallo 1,5-2,0%. Un aumento elevato, che come conseguenze potrebbe portare in dote il crollo del mercato edilizio (si pensi soltanto al repricing dei mutui a tasso variabile) e azionario, oltre che ad un aumento significativo dei rendimenti sui Treasury. E infatti, il bond a 10 anni è salito ieri sopra il livello del 2,0% per la prima volta dall’agosto 2019.
Neppure gli investitori si possono aspettare molte rassicurazioni dai banchieri centrali di Washington.
Con il ritardo accumulato nel processo di “normalizzazione” della politica monetaria, anche la forward guidance della FED dovrà infatti necessariamente diventare più hawkish.
Nonostante gli errori di valutazione e di sottostima del fenomeno inflazionistico, tuttavia, la FED si sta dimostrando più realista rispetto alla Banca Centrale Europea e alla Bank of Japan. La prima, infatti, ha dichiarato per bocca del suo capo economista Lane, di ritenere l’inflazione ancora un fenomeno transitorio, legato in larga parte ai colli di bottiglia osservati nella catena del valore globale, i quali, a suo dire, si starebbero gradualmente diradando. La seconda, invece, è stata ancora più drastica, scrivendo a chiare lettere in un rapporto di volersi “fortemente impegnare” a non far alzare i rendimenti sovrani sul bond giapponese con maturità 10 anni sopra lo 0,25%, offrendosi di acquistare quantità illimitate di titoli sovrani per difendere tale obiettivo.
Tre Banche centrali, tre diversi approcci, spesso opposti, al problema inflazione. Solo il tempo dirà chi avrà fatto le scelte giuste.