Azione di responsabilità promossa dal Curatore fallimentare nei confronti dell’Amministratore della società fallita e prova del “danno da mancanza o irregolare tenuta delle scritture contabili”. Studiamo il caso e analizziamo il contrasto interpretativo tra la Corte D’Appello di Roma e la Corte di Cassazione.
Gli atti di gestione posti in essere dall’Organo amministrativo di società dichiarata fallita, successivamente al verificarsi di una causa di scioglimento della stessa, possono cagionare ulteriori danni alla societas.
Tali pregiudizi sono idonei a fondare l’azione di responsabilità del curatore fallimentare, contro, appunto, l’amministrazione della persona giuridica, nella misura in cui si tratti di danni derivanti da specifici comportamenti (atti di mala gestio), imputabili all’Organo Amministrativo.
Sul tema del regime probatorio, avente ad oggetto tali comportamenti ed il nesso eziologico sussistente tra questi ed i pregiudizi arrecati alla società, nell’ambito del giudizio promosso dalla curatela fallimentare, contro l’Amministratore, si segnalano due sentenze di orientamento contrapposto.
Azione di responsabilità promossa dal Curatore fallimentare nei confronti dell’Amministratore della società fallita
Segnatamente, con sentenza depositata il 25 maggio 2017, la Corte d’Appello di Roma, in riforma della sentenza del Tribunale di Tivoli, ha rigettato la domanda di risarcimento del danno proposta dal Fallimento nei confronti degli Amministratori, titolari entrambi del 50% delle quote della società fallita.
Il presupposto logico giuridico sul quale si basa la pronuncia della Corte Romana è quello secondo cu sarebbe stato onere (probatorio) del fallimento precisare da quale specifico comportamento gestorio degli Amministratori fosse derivato un danno alla società. I giudici di seconda cure, quindi, sostengono che l’onere probatorio del pregiudizio lamentato sia a carico della curatela, parte attrice nel giudizio di accertamento della responsabilità dell’Organo amministrativo.
Su tale premessa, il rigetto della domanda attorea, in riforma della sentenza di primo grado, viene motivato in relazione alla circostanza per cui le allegazioni della curatela si erano palesate del tutto generiche e non precisate, sotto il profilo degli specifici atti di gestione compiuti e della loro idoneità a generare ulteriori debiti aziendali.
Avverso la sentenza della Corte d’Appello di Roma ha proposto ricorso per Cassazione il Curatore del fallimento, deducendo la violazione dell’art. 2697 c.c., in relazione alla mancata osservanza del principio dell’inversione dell’onere della prova.
Quale azione di responsabilità promossa dal Curatore fallimentare nei confronti dell’Amministratore della società fallita?
In particolare, la Curatela ha dedotto che, in caso di mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili da parte dell’Organo amministrativo, vi sarebbe un’inversione dell’onere probatorio, disciplinato dall’art. 2697 c.c. Pertanto, il principio per cui spetta al Curatore (ovvero all’attore, sotto il profilo processuale) dimostrare il singolo atto gestorio compiuto, la sussistenza del danno e del nesso eziologico tra condotta e danno, soffrirebbe un’eccezione.
Quest’ultima avrebbe la sua ratio nella considerazione secondo la quale, in tale ipotesi, occorre evitare che l’Amministratore, che non abbia consentito la ricostruzione dei movimenti contabili della società, a causa della violazione di obblighi di legge, possa trarre vantaggio dalla propria condotta illecita.
In altri termini, secondo il ricorrente, la mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili, idonea ad integrare un atto illecito ex se, impedirebbe e/o ostacolerebbe l’assolvimento dell’onere probatorio del pregiudizio arrecato alla società, posto dall’art. 2697 c.c. a carico dell’attore in giudizio (quindi, nel caso di specie, del Curatore).
Se ne inferirebbe un’eccezione al principio generale, finalizzata ad impedire che l’Organo amministrativo possa trarre vantaggi dalla propria condotta illecita.
Nel caso di specie, la documentazione contabile rinvenuta dal Curatore (elenco fornitori, stato patrimoniale e conto economico relativi al 2006, senza consegna dei documenti e dei libri sociali obbligatori), era risultata del tutto inidonea a dimostrare i singoli atti gestori, il danno ed il nesso di causalità, circostanza accertata anche dal consulente tecnico nominato d’ufficio in secondo grado, non tenuta debitamente in considerazione dai giudici d’Appello.
In relazione ad ulteriore ma connesso profilo, secondo il ricorrente, la sentenza d’appello sarebbe meritevole di censura nella parte in cui non ha ritenuto l’amministratore responsabile, nonostante l’insorgenza di una causa di scioglimento della società ed il compimento di atti gestori, non idonei alla mera tutela del capitale sociale.
La Suprema Corte, ha ritenuto la fondatezza di entrambi i motivi di ricorso, ritenuti connessi, pur non condividendone il percorso logico deduttivo.
In particolare, secondo l’Organo di Nomofilachia, l’ipotesi della mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili, contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente, non vale ad integrare un’eccezione alla regola iuris contemplata dalla disposizione di cui all’art. 2697 c.c. Tuttavia, essa, qualora si traduca, in concreto, nell’oggettiva impossibilità e/o difficoltà, per il Curatore, di provare e quantificare il danno, imputabile all’Amministratore della società fallita, consente di domandare al Giudice di provvedere ad una liquidazione del danno in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c.
La Corte di Cassazione, Sez. I, con la sentenza del 5.01.2022, n. 198, dopo aver richiamato una serie di precedenti giurisprudenziali sul tema, ha affermato la massima per cui: è consentito l’utilizzo del criterio equitativo per la liquidazione del danno, purchè siano indicate le ragioni che non hanno consentito l’accertamento degli specifici effetti dannosi riconducibili alla condotta degli Amministratori e purchè il ricorso a tale criterio si presenti logicamente plausibile, in rapporto alle circostanze del caso concreto.
Per tale via, il Giudice del diritto, in accoglimento dei due motivi di ricorso enunciati, ha cassato la sentenza impugnata e rinviato alla Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione, per un nuovo esame e per statuire anche sulle spese del giudizio di legittimità.
La pronuncia della Suprema Corte offre importanti spunti di riflessione, in tema di onere probatorio, con particolare riguardo alla materia fallimentare ed all’onere di regolare tenuta delle scritture contabili. Essa, infatti, pur non avallando la deduzione svolta dal ricorrente, di fatto, tipizza un’eccezione alla regola di diritto mutuata dall’art. 2697 c.c., nella misura in cui consente all’attore in giudizio, il quale non abbia potuto assolvere all’onere probatorio, di ricorrere al criterio equitativo, quand’anche non articolato nella relativa domanda giudiziale, neppure in via subordinata.
Tale approccio ermeneutico, sotto il profilo processuale, contrasta con il principio della domanda, cardine del processo civile.
In ordine ai profili di diritto sostanziale, esso si pone in netta contraddizione con il gravoso onore probatorio, a carico del soggetto sottoposto a procedura fallimentare, con conseguente violazione del principio di uguaglianza sostanziale, di cui all’art. 3, secondo comma della Costituzione e seri dubbi di “tenuta di sistema”.
La massima di diritto affermata dalla Cassazione Civile, nella sentenza in commento, pur avendo il pregio di percorrere un excursus di precedenti giurisprudenziali, anche delle Sezioni Unite, in tema di onus probandi, incontra il limite di non interpretarli sistematicamente, di non attualizzarli, dando ad essi una lettura costituzionalmente orientata.
Da un lato, la statuizione sembra dimenticarsi del secolare, quanto basilare, principio della domanda, della corrispondenza tra il “chiesto e il pronunciato”, per cui al Giudice è inibito di pronunciarsi “oltre i limiti della domanda giudiziale”, che, nel caso di specie, non prevedeva, appunto, una liquidazione equitativa del pregiudizio (nemmeno subordinatamente).
Dall’altro, essa si contrappone al più recente orientamento ermeneutico, venutosi a formare in materia di onere probatorio gravante sull’imprenditore, in sede di giudizio fallimentare, al fine di evitare la fallibilità.
In tale sede, infatti, non è mai stato fatto richiamo a principi equitativi, ad eccezioni alla regola generale, anche quando la prova da rendere in giudizio risultava oggettivamente iperbolica.
Inevitabile postulato di diritto è il contrasto della sentenza in commento con il principio di uguaglianza, di rango costituzionale, avendo la magistratura mostrato un trattamento di favore per le ragioni della Curatela fallimentare, rispetto a quelle dell’imprenditoria italiana.
Un caso, potremmo dire, in cui il Giudice del Merito sembra aver interpretato le norme di diritto, sotto il profilo della tenuta sistematica delle stesse, anche a livello costituzionale, più correttamente della Suprema Corte.