Rispondo, in questo articolo, ad alcuni quesiti che mi sono stati posti sulla politica economica di Trump.
Un nuovo termine è stato coniato dopo l’elezione di Trump, ad indicare la politica economica decisa dal nuovo presidente americano.
Ma si tratta realmente di qualcosa di nuovo, di caratteristico?
A ben vedere, i pilastri fondamentali prospettati da Trump nel suo programma economico poggiano su un mix delle piùl tradizionali teorie della destra e della sinistra economica anglosassoni.
Due scuole di pensiero, di cui la prima incentrata sulla riduzione della pressione fiscale, e la seconda sugli investimenti pubblici, in stile neokeynesiano.
Questi due motori dovrebbero, nelle intenzioni del presidente, generare una nuova fase di sviluppo economico.
Ed in effetti, secondo le indicazioni desunte dalla teoria macroeconomica, questo sarebbe possibile, tramite l’effetto noto come moltiplicatore keynesiano.
Senza entrare in eccessivi dettagli tecnici, possiamo dire che un determinato livello di defiscalizzazione o di investimenti in opere pubbliche, dovrebbe determinare uno stimolo nell’economia reale, in termini di investimenti e consumi, pari a x volte il quantitativo di moneta oggetto di defiscalizzazione o di pubblici investimenti.
Ma questo si può verificare solo se esiste una propensione ad investire ed a spendere il maggior denaro che circola nell’economia.
Ora, diversi studi dimostrano, però, che se non raggiungono una certa soglia, difficilmente gli investimenti e le defiscalizzazioni riescono ad innescare tale circolo virtuoso.
Questo comporta, necessariamente, un certo rischio, soprattutto per le casse dell’erario.
Infatti defiscalizzare ed investire in opere pubbliche richiede risorse finanziarie, che non ritorneranno nelle casse dello stato sotto forma di maggiori introiti fiscali, se non si verifica una crescita economica minima, tale da compensare, con una maggior base impositiva, le uscite effettuate per i programmi di defiscalizzazione e di investimento.
Il rischio, quindi, è quello di aggravare i bilanci pubblici, senza ottenere un adeguato ritorno economico.
E già il debito pubblico americano è a livelli considerati monstre.
Forse, sarà sulla base di tali considerazioni economiche che alle promesse elettorali non sono ancora seguite specifiche realizzazioni?
Sicuramente in campagna elettorale si fa presto a parlare di investimenti in opere pubbliche e di defiscalizzazioni, ma la loro concreta realizzazione, una volta entrati nella stanza dei bottoni, trova spesso l’opposizione di consiglieri che, anche sulla base di analisi specifiche condotte sulla realtà economica, frenano gli ambiziosi programmi politici.
Peraltro dobbiamo considerare un’altra serie di vincoli, che una politica di questo tipo incontra nella sua effettiva realizzazione.
Non si tratta, infatti, solo di fare i conti con il bilancio pubblico, ma di considerare che gli effetti positivi di una tale politica espansiva possono dover fare i conti con i limiti di capacità produttiva di determinati settori.
Quando, in una fase espansiva, tali limiti sono raggiunti, è evidente che solo un particolare ottimismo potrà condurre a rinnovare e ad ampliare gli apparati produttivi oltre un certo limite, ma questo non può verificarsi se le prospettive economiche sono già in una fase avanzata del ciclo economico, come attualmente si sta verificando negli USA.
Sotto il profilo più strettamente politico, il presidente ha comunque bisogno dell’appoggio del congresso, ora a maggioranza repubblicana.
E, come noto, una parte significativa del programma di Trump è in realtà riconducibile ad una politica neokeynesiana, relativa agli investimenti in opere pubbliche, che è avversata in primis proprio dai repubblicani.
Riuscirà, quindi, Trump a convincere un congresso di destra a varare una politica economica di sinistra?
Ma anche la componente riconducibile alla defiscalizzazione potrebbe trovare ostacoli politici, perché il piano fiscale di Trump non è detto che coincida con le priorità del congresso in termini di defiscalizzazione.
Come notiamo, non è probabilmente un caso se Trump ancora non ha mosso passi significativi verso la realizzazione del suo programma.
Ma esistono anche altri fattori di cui tener conto.
Un aspetto rilevante del suo programma riconduce ad una politica di isolazionismo economico, fondata sui dazi.
Ma va ricordato che componenti significative dell’economia statunitense provengo dall’import da altri paesi.
Pensiamo, ad esempio, a certe componenti dell’industria automobilistica.
In tal caso, i dazi sull’import rischiano di tradursi in tasse sull’export.
Senza peraltro considerare che sicuramente gli altri paesi non staranno a guardare, ed anche questi ricambierebbero con dazi verso i prodotti USA.
Quelle esposte sopra sono tra le tra le principali ragioni per le quali, non a caso, il programma economico di Trump stenta a decollare.
Quali riflessi sui listini azionari?
Sotto tale profilo può essere interessante considerare un ratio, un parametro, spesso usato in alcune analisi, per definire livelli di sopra o sottovalutazione delle borse, il rapporto p/pil, cioè tra capitalizzazione di borsa e prodotto interno lordo.
A fine 2016 gli USA risultavano tra i paesi maggiormente sopravvalutati, con un rapporto pari al 125 per cento, e con uno scostamento rispetto alla media storica di tale rapporto pari a + 36 %.
Ovviamente le prospettive, da un punto di vista di analisi fondamentale, non erano comunque così tirate, proprio in vista di un’espansione del pil che, aumentando il denominatore del rapporto, comportava una logica riduzione del ratio.
Ma, appunto, cosa succede se quelle prospettive non si realizzano, o comunque si realizzano in misura inferiore al previsto?
Naturalmente la logica conseguenza è che il ratio rimane eccessivo e resta e serio rischio una prospettiva di investimento in assenza di un adeguato incremento del tasso di espansione economica.
Gian Piero Turletti è Autore degli Ebooks: Magic Box e PLT Edizioni Proiezionidiborsa