Tutti parlano del referendum sulla cannabis ma ecco spiegati i motivi per cui sarebbe stato bocciato

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Come da previsione, è arrivato il responso della Corte Costituzionale sui quesiti proposti tramite raccolte di firme. Secondo l’articolo 75 della Costituzione, infatti, 500.000 elettori possono richiedere l’abrogazione di un testo di legge. Questa proposta deve essere depositata entro il 30 settembre di ciascun anno. Dopo il controllo sui requisiti formali effettuati dall’Ufficio centrale per il referendum, 15 giudici della Corte decidono il tema dell’ammissibilità. Questi, secondo il medesimo articolo, stabiliscono se la richiesta di abrogazione non riguardi “una legge tributaria o di bilancio, di amnistia o di indulto e di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali”. Infatti, non si può abrogare una legge riguardante uno di questi temi senza l’intervento legislativo del Parlamento.

Tra i quesiti presentati c’era una questione riguardante l’abrogazione di alcuni passi del “Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope” (D.P.R. 309/1990). Come noto, la Corte Costituzionale non ha ritenuto congrua la richiesta, negando la possibilità che la questione venisse sottoposta tramite referendum popolare (votazione tramite le urne). Nell’attesa della presentazione delle motivazioni scritte, è possibile intanto capire il ragionamento giuridico di questa scelta. Infatti, tutti parlano del referendum sulla cannabis ma per come era stato posto il quesito non riguarderebbe solo questa sostanza. Vediamo queste richieste e proviamo a capire se questa modifica cambierebbe la possibilità di coltivazione in ambito domestico e per uso personale.

Il testo

Nella formulazione della richiesta sintetizzata, i promotori chiedevano la soppressione di alcune parti della già citata norma. In particolare, dall’articolo 73, comma 1, l’inciso “coltiva”. Nell’articolo 73, comma 4, le parole “la reclusione da due a 6 anni e”. Infine, nell’ Articolo 75, le parole “a) sospensione della patente di guida, del certificato di abilitazione professionale per la guida di motoveicoli e del certificato di idoneità alla guida di ciclomotori o divieto di conseguirli per un periodo fino a tre anni”.

Nelle intenzioni c’era l’esclusione della sanzione amministrativa del ritiro della patente di guida, l’esclusione della coltivazione dalle attività considerate penalmente perseguibili e la fine della pena detentiva negli altri. In quest’ultimo caso sarebbe rimasta la pena pecuniaria. Si parlava di referendum sulla cannabis ma il testo, così come formulato, dimenticherebbe di compiere alcune distinzioni tra tipologie di sostanze.

La Repubblica Italiana, cancellando a prescindere il reato di coltivazione di alcune di queste sostanze, violerebbe alcuni obblighi internazionali riguardanti la lotta al narcotraffico. Questi sono contenuti in trattati formali firmati e ratificati, e come tali internazionalmente vincolanti. Tra questi spicca la Convenzione Unica sugli stupefacenti adottata nel 1961 dall’ONU, che divide le sostanze in tabelle di pericolosità. Questo aspetto sembra essere confermato da alcune dichiarazioni emerse nelle agenzie di stampa, come ANSA, da parte del Presidente della Corte Giuliano Amato. Questi ha detto in merito al primo dei sotto quesiti “scompare tra le attività penalmente punite la coltivazione delle sostanze stupefacenti di cui alle tabelle 1 e 3, che non includono nemmeno la cannabis che è nella tabella 2 ma includono le cosiddette droghe pesanti”.

Tutti parlano del referendum sulla cannabis ma ecco spiegati i motivi per cui sarebbe stato bocciato

In effetti la Corte di Cassazione (Sezioni Unite, ordinanza 35436/2019) aveva prospettato la non perseguibilità penale di coltivazione di cannabis a due condizioni. In primo luogo, che questa fosse compiuta in “minime dimensioni svolte in forma domestica”. Inoltre, a patto della “mancanza di indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato”. In sintesi, la coltivazione della sostanza resta un reato, ma se nel caso concreto si registra l’uso personale ottenuto con l’utilizzo di tecniche rudimentali, non c’è perseguibilità della condotta. Questi orientamenti sono senza dubbio incisivi (si tratta del grado più alto della giustizia civile italiana). Pur non vigendo il principio del precedente, sono considerabili punti di riferimento molto autorevoli. La mancata accettazione del quesito referendario non inficia di per sé la validità di quella decisione. Certo, significa che spetta ad un giudice al termine di un procedimento stabilire se la condotta in concreto sia inoffensiva.

Le indicazioni dovrebbero essere dunque di tipo giuridico. Si potrebbe legittimamente chiedersi se la proposta di abrogazione da sintetizzare in poche frasi sia adatta ad un testo normativo tanto complesso. Forse una riflessione organica effettuata dalle forze politiche in grado non solo di abrogare, ma anche di modificare un testo, potrebbe essere più adatta al caso concreto.

A prescindere dalle opinioni sul tema, questo darebbe inoltre il pieno senso non di esclusione di una tematica così vasta e percepita, ma di dialogo. Le sentenze della Corte di Cassazione sembrerebbero costituire una base piuttosto conforme su cui iniziare ad impostare alcune distinzioni utili al legislatore.