Sarà il tempo a stabilire se il “timing” di intervento della Banca centrale è stato corretto oppure no

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Tanto tuonò che piovve. La scorsa settimana, il FOMC della Federal Reserve ha cambiato la sua forward guidance di politica monetaria, pur lasciando inalterata la stance, prevedendo un doppio rialzo dei tassi d’interesse entro il 2023. La restrizione della forward guidance, che segna di fatto l’inizio della fine dell’era di politiche monetarie ultra espansive condotte dalla Banca centrale americana nel tentativo di risollevare l’economia, era nell’aria, dopo la pubblicazione degli ultimi dati sull’indice dei prezzi al consumo, che lo scorso maggio ha toccato il livello del +5,0% su base annuale, il massimo degli ultimi 13 anni. Decisamente troppo per giustificare un ennesimo rinvio del restringimento.

Negli ultimi mesi, se non anni, le giustificazioni condotte dai banchieri centrali di tutto il Mondo per giustificare le loro politiche monetarie ultra espansive sono state le più svariate.

Spesso ragionevoli, altre volte indifendibili. Ad esempio, una delle giustificazioni più spesso portate avanti sia dai banchieri della FED che da quelli della BCE è stata quella che l’inflazione fosse dovuta solamente all’aumento dei prezzi delle componenti più variabili, come energia e alimentari, mentre l’inflazione “core” era tutto sommato sotto controllo. Una posizione, questa, che accende un antico dibattito, dal momento che distinguere tra inflazione “core” e “non core” sembra, di fatto, una forzatura, considerando che il potere d’acquisto delle famiglie e delle imprese cala in funzione dell’andamento dell’inflazione in generale, non soltanto della sua componente più stabile.

In ogni caso, a far venire meno questa scusa sono stati ancora una volta i dati, i quali hanno certificato che, sempre a maggio, l’inflazione “core” negli Stati Uniti è salita al +3,8%, il massimo livello degli ultimi 29 anni e di ben 1,8 punti percentuali al di sopra del target obiettivo della FED (2,0%).

Sarà il tempo a stabilire se il “timing” di intervento della Banca centrale è stato corretto oppure no

Un’altra scusa spesso portata avanti dai banchieri centrali per giustificare la loro posizione monetarie eccessivamente “dovish” è quella della “transitorietà” della fiammata inflazionistica. Secondo questa posizione, l’irrigidimento della politica monetaria non dovrebbe avvenire se l’aumento dei prezzi osservato venisse reputato soltanto di breve periodo o transitorio, mentre l’inflazione di “medio termine” dovesse rimanere invariata.

Anche questa posizione ha destato molte perplessità, considerando che l’inflazione di medio termine – scontando un orizzonte previsionale più lungo – è più difficile da prevedere di quella a breve termine e che, in ogni caso, questa visione sconta una singolare anomalia, dal momento che i suoi detrattori potrebbero sempre argomentare che anche la deflazione può essere a quel punto considerata solamente come una parentesi transitoria inserita in un trend crescente di lungo periodo.

Il rischio, in pratica, è quello di avere, come si dice in gergo economico, un “bias di previsione” che dipende dallo stato contingente (“contingency state”) nel quale l’economia si trova. In altre parole, quando l’economia si trova in uno stato di recessione si tende ad avere una percezione più pessimistica del futuro e, di conseguenza, la politica economica tende ad assumere una posizione troppo espansiva rispetto al dovuto.

Il terzo motivo per cui i banchieri centrali tendono spesso a mal interpretare la reale situazione dell’inflazione è legato alla definizione stessa dell’inflazione, ovvero al perimetro definitorio che viene utilizzato per il suo calcolo.

L’idea di considerare “inflazione” il solo CPI, ovvero l’indice dei prezzi al consumo è limitativo, è rischia di creare una visione distorta dell’inflazione più generale. Il CPI, infatti, non è in grado di misurare l’inflazione dei prezzi alla produzione, dei prezzi all’ingrosso, e neppure considera l’aumento dei prezzi di numerose asset class, come gli immobili e le azioni. Asset class che, è indiscutibile, stanno sperimentato un elevato trend nei prezzi, per non parlare addirittura di una vera e propria bolla speculativa.

Ecco allora che, una volta considerate tutte queste variabili, ci si può facilmente rendere conto di come la FED possa di fatto risultare ritardataria rispetto ad un restringimento della politica monetaria che avrebbe potuto (e forse dovuto) essere fatto prima. Certamente, come al solito in economia sarà il tempo a stabilire se il “timing” di intervento della Banca centrale è stato corretto oppure no. Tuttavia, il rischio che la FED sia stata per troppo tempo prigioniera delle proprie convenzioni (e paure) rimane molto concreto.