Dagli Stati Uniti all’Eurozona, dal Regno Unito alla Cina esiste un fattore che rischia di mettere a serio rischio la ripresa post-pandemica globale: si chiama inflazione. Diciamo la verità, questa variabile sembrava ormai essere stata dimenticata, vittima della stagnazione economica che aveva colpito molte tra le più importanti economie dei paesi avanzati e delle politiche monetarie ultra-espansive introdotte dalle principali banche centrali per contrastare gli effetti di questa stagnazione, nel tentativo di ridare vigore ai prezzi. Tentativi fino a poco tempo fa non riusciti, considerando che l’enorme massa di liquidità iniettata dalle banche centrali nei mercati non è riuscita a provocare il desiderato aumento dell’inflazione verso la soglia canonica del 2,0%.
Il fallimento di questo obiettivo è stato talmente lampante da aver messo in seria discussione la validità delle più note teorie dell’economia monetaria.
A partire da quella quantitativa della moneta proposta dal premio Nobel Milton Friedman, la quale afferma che esiste un nesso di causalità diretto tra aumento dell’offerta di moneta e del livello dei prezzi, quando il primo supera il tasso di crescita dell’economia reale.
Invece, sembra proprio che l’inflazione stia tornando. Diversi i fattori che stanno concorrendo all’aumento dei prezzi. Prima di tutto la ripresa della domanda globale, con i consumatori che stanno tornando finalmente a spendere, dopo mesi di lockdown forzato. Aumentano le riaperture e con esse l’umore positivo di imprese e famiglie, come catturato dai principali indicatori di fiducia, come gli indici PMI. E con il miglioramento delle aspettative per il futuro, si ritorna a spendere. Ma se la domanda corre è l’offerta a non riuscire a tenere il passo.
Difficoltà di approvvigionamento, colli di bottiglia a diversi stadi della supply chain, difficoltà a far lavorare la forza lavoro a pieno regime per i vincoli sanitari e normativi stanno creando diversi problemi ai produttori, alle prese anche con una impennata dei prezzi delle principali commodities. Particolarmente colpite sono le industrie dei semiconduttori, dell’elettronica e l’automotive. E l’aumento dei prezzi delle materie prime si sta velocemente scaricando sui prezzi finali.
Sembra proprio che l’inflazione stia tornando
L’inflazione ostacolerà la ripresa economica degli Stati Uniti? E’ la domanda che si è posto, tra gli altri, anche il Financial Times, il quale ha ricordato che il prossimo mercoledì, l’indice dei prezzi al consumo di base pubblicato dal dipartimento del lavoro degli Stati Uniti relativo al mese di aprile “potrebbe fornire la prova più chiara che queste pressioni sui prezzi potrebbero diventare una minaccia crescente per la ripresa” e che “gli economisti interpellati da Bloomberg si aspettano che quel numero salga al 2,3% per aprile, che sarebbe il livello più alto da quando la pandemia di coronavirus ha preso piede negli Stati Uniti.”
Le conseguenze sui sovereign yield non hanno tardato ad arrivare, con gli investitori che hanno venduto titoli di stato americani quest’anno per paura proprio della variabile inflazione, mandando il rendimento del Treasury decennale all’1,75% lo scorso marzo. Da allora, il rendimento è sceso, anche per via dei dati sul lavoro negli Stati Uniti risultati peggiori delle attese. Ma l’aumento dei prezzi al consumo è oggi più che mai in cima alla lista delle preoccupazioni degli analisti, i quali cominciano seriamente ad attendersi che la Federal Reserve possa iniziare a ridurre i propri stimoli monetari e ad aumentare i tassi d’interesse. Se questo avverrà tra due mesi o tra due anni è difficile da dire. Ciò che appare evidente è che la bonanza finanziaria che ha investito i titoli sovrani negli ultimi anni sembra proprio sulla via dell’esaurimento.
Approfondimento
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