Un focus per capire perché non vanno iniziate storie di cuore se si è affetti dalla sindrome che viene da Stoccolma.
Correva l’anno 1973 e nel mese di agosto, un uomo evaso dal carcere di Stoccolma, dove era detenuto, tentò una rapina alla sede della Sveriges Kreditbanken di Stoccolma. In quel frangente, vennero presi in ostaggio tre donne e un uomo. Una prigionia e una convivenza forzata, tra ostaggi e carceriere, che, stando alle cronache del tempo, si protrasse per oltre 6 giorni.
La cosa, fortunatamente, ebbe esiti positivi, infatti i malviventi si arresero e gli ostaggi vennero rilasciati, senza dover ricorrere ad azioni di forza. Ma quello che non era, di certo, stato messo nel conto, fu la “strana” reazione degli ostaggi, una volta rilasciati. Tanto da attirare l’attenzione dell’opinione pubblica svedese. Gli psichiatri, coinvolti nello studio del caso, non tardarono a soprannominare lo strano fenomeno, di cui nel prosieguo, come “Sindrome di Stoccolma”. Vediamo quindi perché non vanno iniziate storie di cuore se si è affetti dalla sindrome che viene da Stoccolma.
La strana relazione tra ostaggi e carceriere
Il locale in cui le persone vissero, a stretto contatto, per circa sei giorni, era simile a un corridoio e fu proprio questo il teatro di gesti destinati a rimanere impressi nelle menti dei sequestrati. Ma non nel senso negativo che si potrebbe pensare. Stando, infatti, alle deposizioni rese dalle vittime di sequestro, vari furono i gesti di gentilezza da parte dei rapitori che rimasero impressi. Dal porgere indumenti al concedere una boccata d’aria fino alla “generosità” nell’aver risparmiato loro la vita. Da qui l’espressione, allora di nuovo conio, di “Sindrome di Stoccolma”. Da intendersi come una reazione emotiva automatica sviluppata sul piano dell’inconscio. Chi è affetto da questa sindrome prova un paradossale sentimento di benevolenza nei confronti del proprio aggressore che può spingersi fino all’ “amore”. Verrà ad instaurarsi così, una sorta di alleanza e solidarietà tra vittima e carnefice.
La relazione vittima carnefice nella coppia
Da qui il passaggio alle dinamiche relazionali è breve. Fermo restando che nessuno di noi può dirsi mai completamente risolto, quanto a dinamiche interne, è pur vera una cosa. Se ci si dovesse accorgere che si sta partendo col piede sbagliato, nella vita di coppia, molto meglio fare subito dietro-front. Che significa? Semplicemente che se i ruoli che vengono ad instaurarsi all’interno della vita a due sono quelli della vittima e del carceriere, non ci può essere nulla di buono all’orizzonte. Quindi, anche senza essere vittime di un sequestro di persona, alle volte il “carcere” può essere inflitto all’altro con dinamiche sbagliate.
Il segnale che qualcosa non va è quello che fa sentire un partner in sudditanza verso l’altro che manipola, a suo piacimento, la situazione. E’ pur vero però che queste dinamiche sbilanciate non sorgono a caso. Spesso, dietro a tutto questo, si cela infatti una bassa stima di sé che trova il suo incantrasto “perfetto” con l’ego spropositato dell’altro partner. Il quale, quasi fosse un antico dominus romano, pensa di avere “diritto di vita e di morte” sull’altra metà.
Pertanto se ci si dovesse avvedere che si stanno delineando le condizioni per relazioni così sbilanciate, meglio tornare sui propri passi. E se si dovesse sentire che da soli è impossibile tagliare con quella situazione, non avere timore di farsi dare una mano. Ecco perché non vanno iniziate storie di cuore se si è affetti dalla sindrome che viene da Stoccolma. E, come dice il detto, “meglio soli che male accompagnati”.