Un focus per capire cosa pensano i giudici delle emoticons affettuose inviate dal capo alla dipendente.
Le emoticons sono ormai entrate a “faccia tesa” nelle conversazioni di tutto l’universo mondo. Con il termine emoticon, veicolato dall’inglese, che fa un mix tra emotion e icon, si rimanda alle seguenti italianissime parole: emozione e immagine. Per cui, alle volte, si riduce l’uso della parola scritta e si affida la comunicazione alla faccina di turno che ci sembra più confacente al caso. Ma cosa accade se dalla scelta delle faccine più spassose e tranquille, dovesse venire l’estro di avventurarsi su crinali più ambigui con cuori e baci?
Siamo poi così sicuri che tutti, nel mondo del lavoro, apprezzino questo stile comunicativo che tende ad accorciare di molto le distanze? A dirla con un caso finito all’attenzione di un giudice del Tribunale di Roma, la risposta è no. Vale a dire non è così scontato che tutti i lavoratori, o forse sarebbe più giusto dire le lavoratrici, apprezzino questo tipo di effusioni a distanza. Specie se il mittente di queste faccine tutte cuori e baci è “lui”, ovvero il capo di turno. Vediamo quindi di capire cosa pensano i giudici delle emoticons affettuose inviate dal capo alla dipendente.
Il fatto
Una dipendente era diventata il bersaglio mobile preferito di un datore di lavoro. Quest’ultimo si rendeva infatti autore di una serie di messaggi personali, intervallati da emoticons. La scelta, guarda caso, cadeva però sulle faccine con chiare implicazioni di genere “affettuoso”. Per tutta risposta la Lei di turno, non solo non gradiva affatto queste esternazioni da parte del capo, ma non ci pensava due volte e adiva le vie legali. A suo dire, la condotta dell’aitante capo, conteneva infatti gli estremi della vessazione. La presenza delle faccine, in accompagnamento al testo, portava però a “scagionare” il datore di lavoro. Vediamo quindi come ha ragionato il giudice, nel caso di specie.
Emoticon nell’ambiente di lavoro
Il giudice del Tribunale di Roma, con sentenza n.1859 del 2018, ha ritenuto d’inquadrare la situazione all’interno di un rapporto di confidenza e cortesia. Per cui il tono affettuoso e confidenziale della messaggistica, unito all’impiego di emoticons, sarebbe stato privo di condizioni di soggezione psicologica o disagio della dipendente. Soggezione e dipendenza che, invece, sono necessarie per potersi parlare di vessazione vera e propria di una parte sull’altra.
Un punto di vista dunque diametralmente opposto espresso dal giudice rispetto a quello prospettato dalla dipendente che, anziché trattata in modo cortese, si sentiva vessata. E in questo inquadramento della vicenda hanno fatto la loro parte anche le cosiddette “faccine”.
Come a dire che le emoticons tendono, secondo la giurisprudenza che si fa sempre più costante, ad “ammorbidire” il tono delle parole. Comunque, volendo fare di necessità virtù, d’ora in poi meglio stare attenti, non solo a ciò che si scrive, ma anche, alle faccine che si scelgono. Per un emoticon non troppo felice o addirittura del tutto sbagliato o superficiale, si potrebbe finire per essere fraintesi e, in men che non si dica, pure davanti al giudice. Ecco, dunque, cosa pensano i giudici delle emoticons affettuose inviate dal capo alla dipendente.