Quali sono le famiglie che comandano a Piazza Affari? Ce ne sono ancora?
A Piazza Affari le grandi famiglie perdono forza, ma analizzando tutte le S.p.A, quotate e non, riescono ancora a resistere. Seppur in calo.
Il tramonto delle famiglie a Piazza Affari?
Recentemente è stato messo all’asta il tesoro dei quadri della collezione privata di Calisto Tanzi, patron di Parmalat.
Si tratta di un capitale di diversi milioni di euro che comprende autori del calibro di Manet, Monet, Cézanne, Matisse, Van Gogh, Boccioni, Renoir, Chagall, Balla, Magritte.
Un evento che ha riportato alla memoria di molti non solo il disastroso crac di Parmalat o quello della galassia Ligresti ma anche il fatto che, a differenza di quanto si possa pensare, il potere delle famiglie, nelle holding italiane, è inferiore a quello dei fondi esteri.
Lo studio di Unimpresa
Come ricorda l’ultimo studio di Unimpresa, infatti, queste ultime quando si parla di possesso aziendale, non vanno oltre il 40% mentre i fondi esteri arrivano al 51% delle quotate. Unica consolazione: secondo uno studio della Banca d’Italia, guardando all’universo delle S.p.A, quindi allargando la visuale alle aziende quotate e non, la fetta più grossa resta ancora in mano alle famiglie.
I dettagli
Ma anche in questo caso il diavolo è nei dettagli: l’attuale 39,19% è un dato che risulta in calo se paragonato con il 41,80% del 2018. Eppure nella fantasia popolare, le grandi famiglie (vedi Ferrero, Malacalza, Berlusconi senza contare i Di Benedetti di CIR e Sogefi o i Colaninno con Immsi e Piaggio) sembrano avere avuto spesso il monopolio.
I “salotti buoni” della finanza sono forse ormai tramontati?
A quanto pare sì. Una prova potrebbe arrivare addirittura dal mondo del calcio dove ormai molte squadre sembrano essere solo sterili meteore all’interno di portafogli internazionali di fondi.
Gli Agnelli e i Ferrero: le differenze
Gli Agnelli hanno fatto la storia dell’Italia ma a quanto pare sembrano essere ormai animali in via di estinzione, persi ormai nella necessità di globalizzare l’azienda per permetterle di sopravvivere. Marchionne docet. C’è poi chi, come Giovanni Ferrero, 50 anni, numero uno dell’industria della Nutella, preferisce evitare le facili sirene delle quotazione. Amministratore delegato unico del gruppo di Alba dal 2011 oltre che del terzo gruppo mondiale nel settore del cioccolato, ha preso in mano le redini dell’azienda dopo la scomparsa del padre Michele.
Borsa? No, grazie
Per quale motivo però, la Ferrero non sarà mai quotata, almeno secondo le sue intenzioni? Per semplice convenienza: allo stato attuale delle cose la Ferrero non ha bisogno di capitali e la quotazione in Borsa presenta qualche rischio in più. Un capitalismo che, specifica Giovanni, non è rapace ma “illuminato”. Insomma, volendo restare in ambito di grandi famiglie, qualcosa che ricordi il sistema ideato, ormai tanti anni fa, dal grande Olivetti ad Ivrea. Ma si trattava di altri tempi e di un’altra società. E oggi, come spiegare questo sbilanciamento tra la diminuzione del potere finanziario delle grandi famiglie?
La fragilità italiana
Anche in questo caso la risposta è facile: l’impoverimento dei capitali in seguito alla crisi e la mancanza di competitività accumulatasi negli anni, ha reso il patrimonio italiano un’ottima preda perché pregno di valore ma privo di difesa.
Il problema a questo punto, è la tipologia di investitore straniero che riesce a mettere le mani sul valore/capitale italiano. Nel caso abbia intenzione di valorizzarlo con investimenti di lungo periodo, ben venga. Un po’ meno qualora si trattasse di semplice speculazione.
Approfondimento
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